Giocando s’impara: le potenzialità della gamification

Cos’è la gamification?

I giochi accompagnano la vita degli esseri umani dalla notte dei tempi. Un settore che prima era quasi totalmente rilegato al mondo dell’infanzia, specialmente negli ultimi decenni, tramite la colossale industria dei videogiochi, ha cominciato ad abbracciare tutte le fasce d’età.

Basta pensare, che in Italia, secondo il rapporto presentato dall’associazione di settore IIDEA, nel 2022, il fatturato generato dalle imprese di produzione dei videogiochi si aggira tra i 130 e i 150 milioni di euro (+30% rispetto al 2021), si parla in generale di un giro d’affari di ben 2,2 miliardi di euro. Il motore primario di questa enorme macchina è ovviamente il fun, il divertimento, un elemento che può essere accomunato anche con le “cose serie”, come il lavoro. Ma in che modo? 

Si fa riferimento alla gamification, termine che deriva dall’inglese game, ossia gioco o partita, mentre in italiano può essere tradotto con “ludicizzazione”. Tuttavia, al contrario di quanto si sia portati a pensare, non si tratta della semplice conversione di una qualsiasi attività (quotidiana, professionale o d’apprendimento) in un gioco, ma dell’applicazione di elementi di gioco a contesti non ludici, con l’obiettivo di rendere le attività più affabili

La gamification non deve necessariamente divertire, ma motivare l’utente.

Gamification

Facciamo ordine tra le varie definizioni

Bisogna distinguere la gamification dall’apprendimento basato sul gioco (game-based learning), cioè un’ulteriore metodologia che utilizza giochi o videogiochi talvolta già esistenti per fini didattici.

Il game-based learning può essere applicato anche tramite i cosiddetti “serious game”.  Essi, traducibili con “giochi seri” sono strettamente collegati al concetto di Eduntainment, il quale portò alla creazione dei primi videogiochi educativi. Un videogioco, per essere considerato un serious game, deve avere in sé una componente ludica, una simulativa e una formativa.

Grazie a ciò essi possono essere utilizzati per permettere l’utente di esercitarsi in un ambiente realistico, ma allo stesso tempo protetto. Ad esempio, tali giochi sono spesso utilizzati nella formazione specialistica e tecnica dei piloti di linea. Il vantaggio è imparare dai propri errori senza ripercussioni sulla realtà, d’altra parte, gli svantaggi più preponderanti sono l’alto costo e la scarsa flessibilità: sviluppare e aggiornare tali software richiede un grande investimento, sia di tempo che economico. Perciò è auspicabile impiegare tale metodologia per la trasmissione di nozioni che rimangono stabili nel tempo.

In sostanza, oltre i costi, contenuti per la gamification ed elevati per l’apprendimento basato sul gioco, la differenza principale è lo scopo.

Il fine dell’apprendimento basato sul gioco è sviluppare capacità di problem solving: favorire l’apprendimento (imparare divertendosi). Perciò l’intero corso è trasformato in un gioco.

Tassonomia di R. Bartle

Per progettare un’attività che coinvolga l’utenza supportandola nel processo d’apprendimento, come già detto, bisogna far leva sulla motivazione. Per far ciò è importante andare a scoprire i motivi che spingono a portare a termine l’attività. Il ricercatore inglese Richard Bartle, nel 1996, riuscì ad individuare quattro diverse categorie di videogiocatori:

  1. Killer (coloro che amano vincere sugli altri);
  2. Achiever (fanno di tutto per accumulare più oggetti e medaglie possibili);
  3. Socializer (giocano per socializzare e collaborare);
  4. Explorer (si immergono completamente nel gioco, esplorandone ogni particolare).

Tale classificazione non è rigida, i diversi tratti possono coesistere in un unico giocatore, ma a grandi linee, comprendere la personalità dell’utente è di grande aiuto in fase di progettazione, per creare esperienze funzionali al proprio target.

La gamification a scuola

La gamification è oramai una metodologia entrata a pieno titolo nelle aule in quanto attività creativa, coinvolgente, che permette di sviluppare anche il senso d’appartenenza. A proposito, Mikaly Csikszentmihalyi, psicologo ungherese, parlò della cosiddetta flow experience.

L’idea gli venne dai colloqui con i suoi pazienti, i quali dicevano di sentirsi, duranti i loro incontri, come trascinato da una corrente d’acqua. Il flow è quindi uno stato caratterizzato da piacevolezza, in cui si è talmente assorti nel compito da svolgere da essere incuranti del tempo che passa. Affinché il flow sia possibile, è necessario che i compiti da completare siano chiari e raggiungibili, con feedback diretto e immediato.

A questo punto si evince da sola la possibilità di potenziare l’apprendimento cercando di indurre gli studenti in questa sorta di “trance”. Entra qui in scena la gamification. Essa, come già accennato, non richiede necessariamente l’uso di videogiochi, ma è possibile anche adattare le attività analogiche simulando meccaniche e trame tipiche del game design. 

Per esempio, ipotizzando di lavorare con un gruppo classe, quest’ultima potrebbe essere divisa in gruppi cooperativi dove i membri hanno ruoli e poteri differenti. A questo punto gli studenti dovranno svolgere compiti accademici vivendo un’avventura giocata.

Ovviamente al giorno d’oggi, più che sulle attività analogiche è opportuno concentrarsi sulle potenzialità dei videogame. Essi hanno appunto la particolarità di rendere immediatamente visibili gli errori e trasformare una situazione stressante come quella del fallimento, in impulso di rivalsa: dinanzi a una sconfitta si è portati a riprovare più e più volte. L’errore quindi non è determinante, ma temporaneo, è un’opportunità per migliorare.

Proprio questa prerogativa del punteggio, se da una parte funge da stimolante, dall’altra è responsabile dell’ansia da prestazione; quindi, rivelandosi non utile per tutti; infatti, la gamification può indurre gli alunni a competere negativamente.

Tale metodologia, per quanto sia utile, non può ovviamente sostituire la guida del docente in carne ed ossa, ma nelle giuste dosi e con metodo, può essere un valido strumento per addestrarsi su specifiche competenze.

📝 Estratto dell’articolo a cura di Alessia Simina.

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